mercoledì 20 ottobre 2010

Scacco matto dei separatisti, violato il cuore istituzionale della Cecenia

Il germe della violenza e dell'instablità sta per tornare laddove, seppur con le armi, la distruzione, e la morte, sembrava che "madre" Russia fosse riuscita a ripristinare il controllo sul "figlio" ribelle. Ma le cose in Cecenia non stanno evidentemente così, lo dimostra l'episodio accaduto due giorni orsono a Grozny.

Ecco di nuovo comparire i separatisti, con un'azione che lascia solo cattivi presagi per il futuro. Il fatto che l'azione attentatrice sia accaduta all'interno di una sede istituzionale - ovvero in quel centro della direzione politica che dovrebbe risultare inattaccabile e inoppugnabile - suona come un fendente scagliato contro il cuore di un paziente malato, questa montuosa repubblica a maggioranza musulmana che Mosca ha storicamente faticato prima a sottomettere, poi a governare.

Dopo il Daghestan, dopo l'Inguscezia, dopo la Kabardino-Balkaria, anche la Cecenia del plenipotenziario Kadyrov si ascrive all'elenco delle aree tumultuose, agitate da una guerriglia anti-governativa prodotto di un malcontento dilagante, alimentato come un fuoco dal fondamentalismo islamico.


L'escalation di sangue e tensioni dimostra come la gestione, e le misure di controllo approntate dal Cremlino al momento non stanno producendo i risultati attesi.


Di seguito propongo un'interessante articolo, che presenta una cronaca dei fatti e propone un punto di vista su quanto accaduto nella città caucasica.


Fonte: Terra
Autore: Annalena Di Giovanni



"Dopo l’uccisione di due addetti alla sicurezza, alcuni attentatori si sono introdotti nella Camera a Grozny. Immediato l’intervento delle forze dell’ordine, così l’Aula ha svolto le sue normali attività.


Almeno sei morti, fra i quali forse due poliziotti, e quattro fra i miliziani, oltre ad almeno 17 feriti; è il bilancio dell’attentato di ieri a Grozny, in Cecenia, occorso alle otto di mattina nella sede del Parlamento ceceno, sgominato all’istante, giusto in tempo per convocare comunque la seduta per il voto sul bilancio. Un blitz, insomma, dai contorni quantomeno oscuri. A cominciare dalla dinamica e dal numero delle vittime, che le agenzie russe hanno continuato ad aggiornare e smentire fino a sera. Secondo la versione ufficiale, ieri, poco dopo l’alba un veicolo di kamikaze si sarebbe introdotto entro il perimetro del Parlamento. E fin qui, la versione certa.

Poi fonti non ufficiali parlano di due attentatori che si sono fatti esplodere, una presa di ostaggi, uno o due poliziotti morti nel tentativo di immobilizzare gli assaltatori. Secondo una testimonianza riportata dall’organo di controinformazione Radio Europa Libera, «il Parlamento è stato crivellato da colpi di mitragliatrice e lanciagranate. Poi la sicurezza ha cominciato a rispondere, innescando una vera e propria battaglia». Ma le forze pro-russe hanno subito minimizzato la minaccia, sottolineando la prontezza della risposta da parte delle forze governative armate da Mosca; e il presidente ceceno Ramazan Karyrov, protetto del Cremlino, ha subito chiamato il premier russo Vladimir Putin per compiacersi della disfatta dei guerriglieri. Insomma da un punto di vista di immagine si è risolto tutto in un successo per la Russia, che sulla Cecenia – tappa cruciale per il transito degli oleodotti dal Caspio - mantiene il pugno di ferro.

E casualmente proprio ieri mattina c’era Rashid Nurgaliev, il ministro degli Esteri russo, in visita a Grozny, che ha commentato con soddisfazione: «I guerriglieri hanno tentato di introdursi nel Parlamento. Il tentativo è fallito grazie all’intervento delle forze di sicurezza». Difficile capire se l’episodio di ieri segnerà l’inizio di una nuova fase del conflitto ceceno; se Kadyrov può contare sulla protezione russa per mantenere il controllo del territorio, è anche vero che le forze ribelli sembrano aver esteso la propria influenza oltre confine, destabilizzando anche Daghestan e Inguscezia.

Ad alimentare il malcontento c’è anche la brutalità delle forze di sicurezza russe e russo-cecene, brutalità resa nota grazie ai racconti della giornalista Anna Politkovskaya, uccisa nel 2006. Esiste poi una complessa rete di rapporti fra clan e diversi movimenti islamisti; una rete di cause ed effetti che il governo Kadyrov non ha certo risolto. E forse proprio a questo puntavano ieri gli attentatori del parlamento, a dimostrare all’ospite venuto da Mosca che la Cecenia, a venti anni dallo scoppio del conflitto, non è ancora domata. Ma per ora l’intento spettacolare dei miliziani si è risolto in un successo militare per il presidente Kadyrov".


Cl.Ri.

martedì 19 ottobre 2010

Consigli per la lettura, protagonista la Cecenia

MiddleLands oggi dà spazio a una proposta di lettura, direttamente dalla Libreria di Via Volta con sede a Erba, piccolo centro della Brianza comasca.


Il libro in questione si intitola Cecenia - Atto III, resoconto dei giorni trascorsi tra la repubblica caucasica e Mosca da Jonathan Littel, scrittore statunitense naturalizzato francese salito agli onori delle cronache con il fortunato Le benevole, originale affresco della Seconda Guerra Mondiale e in particolare del fronte orientale.

Edita da Einaudi, l'ultima fatica viene proposta a un prezzo di 18 euro.

Per visionare la scheda completa, clicca qui.


Grande piacere, e una certa sorpresa - non lo nascondo - ha suscitato la citazione tra le voci correlate di MiddleLands. Doveroso il ringraziamento a una persona in particolare, Giorgio Martini, uomo di cultura tra i più attivi della gioventù di Erba, Como e dintorni.


Cl.Ri.

martedì 5 ottobre 2010

Il sacrificio dell'Ossezia del Sud, nel nome degli equilibri internazionali


Il pesce piccolo conta sempre troppo poco, e finisce puntualmente per essere fagocitato dalle mire di chi detta le regole: poco importa se di mezzo ci va il sangue di persone innocenti, il presente e il futuro di famiglie che vengono private dell'opportunità di costruirsi una vita libera da tensioni, dolore e privazioni.

Questa è la vicenda che nell'ultimo ventennio ha vissuto l'Ossezia del Sud, piccola repubblica appartenente a quello che fu il Caucaso sovietico, oggi riconosciuta dalla Russia ma non dagli antichi padroni della Georgia, pronti a rivendicare il possesso di questa area montagnoso con le bombe, la morte e la distruzione. Il tutto nell'indifferenza, quasi con il beneplacito della comunità internazionale, interessata più alle questioni di ordine geopolitico che a tutto il resto.


Un punto di vista a mio giudizio interessante emerge dall'articolo di seguito proposto, a firma di Giulietto Chiesa, e pubblicato sulla rivista Le Voci delle Voci


Tzkhinval, cos’era?, o cos’è? Se uscite di casa e, una volta superate le asperità della pronuncia, chiedete ai primi dieci passanti se hanno un’idea a proposito di questa parola, nessuno saprà rispondere.

La risposta è: la capitale dell’Ossetia del Sud. Resta da chiarire dov’è e cos’è questo paese. Si trova sul versante sud del Caucaso ed era, fino a 20 anni fa, nei confini della Repubblica Socialista Sovietica di Georgia.

Il 20 settembre l’Ossetia del Sud ha celebrato i suoi 20 anni di indipendenza dalla Georgia. Ma c’è un problema: la Georgia non ha mai accettato la loro indipendenza e, in tutto il secolo XX, ha ripetutamente cercato di schiacciare gli osseti, sia cacciandoli da quella terra, sia assoggettandoli, sia - quando non gli è riuscita nè l’una nè l’altra cosa - sterminandoli.

Il perché è complicato da spiegare e da raccontare in poche righe, ma forse basta elencare alcune specificità.

La prima è che gli osseti non sono mai stati “georgiani”.

La seconda è che parlano una lingua che non ha nessuna parentela con il georgiano (ed è questa una discreta prova che provengono da un’altra storia, alla quale non vogliono rinunciare, avendone pieno diritto).


La terza è che sono stati divisi in due parti, gli osseti, da una storia crudele e più forte di loro: la parte più grande è rimasta dentro i confini della attuale Federazione Russa, è una repubblica autonoma, con capitale Vladikavkaz, e sta a nord della imponente catena montuosa del Caucaso. La parte più piccola è invece a sud del Caucaso, con una popolazione di circa 70 mila persone, esseri viventi all’incirca uguali a noi (anche se facciamo finta di non saperlo). Fino a che i due pezzi fecero parte di un unico Stato, l’Unione Sovietica, la divisione fu meno dolorosa e i piccoli “sudisti” si sentirono relativamente protetti dal Grande Fratello ortodosso. I guai riesplosero con la fine dell’Urss.
Chiesero, ma non ottennero, la autonomia da una Georgia che si dichiarava ora “democratica”, cioè non più socialista, ma che si proponeva ancora una volta di liquidarli. Subirono tre massacri, l’ultimo dei quali nella “guerra dei tre giorni” scatenata contro di loro la notte tra il 7 e l’8 agosto del 2008 dal “democratico” presidente della Georgia, con l’aiuto dell’allora presidente, anche lui molto democratico, dell’Ucraina.


La Russia di Medvedev e Putin, che molto democratici (secondo i nostri metri) non sono, intervenne in forze e, sconfitta la Georgia, riconobbe la Repubblica dell’Ossetia del Sud come sovrana e indipendente e mise la sue armata a presidio di un tale riconoscimento. Che, allo stato dei fatti elenca solo quattro paesi: Russia, Nicaragua, Venezuela, Nauru (chi vuole saperne di più vada a vedere dalle parti della Nuova Zelanda).

Ma non ha molta importanza, perchè nessuno è ora in condizione di cambiare il mazzo di carte.

Il problema è che Europa e Usa, e con loro tutto l’Occidente, non riconoscono l’esistenza dell’Ossetia del Sud, nè quella, parallela e contemporanea, dell’Abkhazia, altra regione che non ne vuole più sapere della Georgia. Entrambi pezzi non dell’ambizione russa, ma della stupidità sesquipedale dei leader georgiani. Perché?
Ufficialmente per il principio della intangibilità delle frontiere, sancito dalle Nazioni Unite. In realtà perché gli Usa vogliono includere la Georgia nella Nato, estendendo a sud l’accerchiamento della Russia, che perseguono dal momento della caduta dell’Urss.
L’Europa, come al solito, segue fedelmente. Gli altri, variamente ricattati, fanno altrettanto. Eppure c’è un altro principio che sarebbe utile non dimenticare, anche quando la Realpolitik impone di seguire il dettato dell’Impero: quello dell’autodeterminazione dei popoli.

Chi non ha la memoria troppo corta si ricorderà che fu proprio questo principio che venne invocato, pochi mesi prima della guerra contro l’Ossetia del Sud, da tutti i paesi occidentali che avevano una gran fretta di riconoscere la indipendenza del Kosovo dalla Serbia.

Ora a me pare - cosa che proposi ripetutamente mentre ero parlamentare europeo - che sarebbe sufficiente mandare una delegazione di parlamentari a Tzkhinval, e lasciarcela per una settimana, libera di gironzolare per il paese e di parlare con i passanti. Capirebbero in un baleno che nessuno, proprio nessuno, vuole tornare sotto il governo di Tbilisi. E chiunque al loro posto farebbe altrettanto, perché è difficile amare chi ti ammazza. Se questa visita fosse stata fatta prima, per esempio nella primavera del 2008, quasi mille civili di Tzkhinval, non meno di 400 soldati georgiani, circa 90 soldati russi, un numero imprecisato di giovani combattenti osseti, sarebbero ancora vivi.

Perché ho raccontato questa storia nin questa rubrica? Perché considero assai miserabile la “distrazione” europea, quella dei nostri media e dei nostri politici, di destra e di sinistra. Portano tutti una quota di responsabilità non solo per il massacro, ma anche per il protrarsi di una ingiustizia inaccettabile. Credono di essere realisti, in realtà sono cinici.

Non solo per Tzkhinval (che è solo apparentemente molto lontano da noi), ma per tutto ciò che concerne la nostra vita.
E ai movimenti che si battono per un mondo migliore in casa nostra vorrei chiedere: ma come potete sperare di ottenere qualche cosa, non importa in quale campo, se tollerate in silenzio che un piccolo popolo, per esempio, subisca la violenza del più forte?

Per visualizzare un'interessante galleria fotografica sulla guerra di Ossezia del 2008, clicca qui.

Cl.Ri.